La strage degli innocenti

I figlicidi proseguono con una cadenza inquietante.

A maggio, in provincia di Sondrio, una madre uccide la figlia di otto mesi mettendola nella lavatrice. A giugno, nei pressi di Aosta, un'altra annega in un laghetto i due figli. Ad agosto, a Bologna, una bimba arriva morta in ospedale per un trauma cranico, di cui viene imputata la madre. A settembre, nelle vicinanze di Chieti, una donna, esasperata dal pianto del figlio, gli tappa con la mano la bocca fino a soffocarlo. L'ultimo episodio è recente: il 17 settembre, a Napoli, una madre getta dal terzo piano il figlioletto di sei mesi.

L'opinione pubblica accoglie questi fatti di cronaca con un misto di turbamento e di inquietudine. Assuefatta alla morte dei bambini in tutto il mondo per fame, carenza di medicinali, guerre, non riesce a metabolizzare i figlicidi, che compromettono il mito dell'istinto materno.

Consapevoli di questo, i giornali danno ampio risalto a tali fatti, fornendo peraltro una cronaca che si riduce alla ricostruzione del delitto, ai commenti dei parenti e dei vicini, e comporta il riferimento rituale al raptus di follia. Tale riferimento viene puntualmente confermato dagli esperti, con accenti e sfumature diverse. Solo raramente accade che qualcuno di questi - come Umberto Galimberti - accenni alla possibilità che, per quanto orribili, i figlicidi possano essere indizi non già di un evento strettamente privato, come una malattia mentale - depressione o schizofrenia - dovuta alla genetica, bensì di cause complesse, diversamente combinate, che li rendono comunque comprensibili, e nel loro complesso rivelano una disfunzione dell'organizzazione sociale e della cultura.

In un articolo (Miti d'oggi. L'educazione dei bambini) ho cercato io stesso di illustrare le condizioni sociali e culturali che rendono psicologicamente pericolosa, per gli adulti e i bambini, l'esperienza dell'allevamento, e che rappresentano il background a partire dal quale si possono originare delle tragedie. In un capitolo di un libro rimasto incompiuto (La depressione delle giovani madri) ho affrontato in termini generali le conseguenze di tale background a livello di giovani madri. Purtroppo, questi problemi non sono recepiti né dall'opinione pubblica né dai politici, per cui non è difficile prevedere che la strage degli innocenti prosegua.

Vorrei soffermarmi a caldo sull'ultimo episodio per dimostrare che, anche disponendo di un minimo di informazioni sull'accaduto, sugli attori, sul contesto ambientale, con appena un po' di sforzo critico riesce sempre possibile intravvedere una trama drammatica che esita nella tragedia.

I fatti riferiti dalla cronaca sono questi.

Giuliana Alparone, l'omicida, ha ventisette anni, frequenta l'università e deve dare solo due esami per laurearsi. Vive a Napoli, in un quartiere residenziale con i genitori. Il figlio lo ha avuto da un uomo cinquantaquattrenne, dipendente dell'università, che la famiglia ha accolto in casa. Da qualche mese, Giuliana soffre di una depressione culminata, tempo prima, in una crisi nel corso della quale ha gettato nell'immondizia i libri di scuola, i dischi, una collezione di conchiglie.

Il 17 settembre, alle 13, Giuliana è sola in casa con il figlioletto. I suoi sono andati a fare la spesa e il compagno al lavoro. Ha appena scaldato il latte nel biberon. Due giovani che si trovano sotto il palazzo la vedono alla finestra, e hanno l'impressione che voglia gettarsi giù. Poi vedono un fagottino cadere dalla finestra e, dopo averlo scambiato per una borsa, si accorgono con orrore che è il corpo di un bambino. Poco dopo Giuliana compare dal portone col volto rigato di lacrime, si siede su di un gradino e guarda il figlio dicendo:"L'ho ammazzato". Si lascia poi condurre via dagli agenti del commissariato, ai quali confessa la motivazione cosciente che l'ha spinta ad uccidere il figlio:"Come tutti gli altri, mi rimproverava".

C'è qualche indizio significativo in queste scarne notizie? Ce ne sono almeno tre.

Le crisi clastiche, che portano a distruggere gli oggetti, sono frequenti in soggetti che stanno male. Esse però sono di tre generi. A volte, il soggetto distrugge tutto ciò che si trova sotto mano, altre volte oggetti cari a qualche convivente, altre volte infine oggetti cui esso tiene particolarmente. Evidentemente la crisi clastica di Giuliana rientra nella terza categoria. Il suo significato dunque è univoco: è arrabbiata con se stessa e ha bisogno di danneggiarsi.

Il secondo indizio è il comportamento osservato dai testimoni. Prima di gettare il bambino, Giuliana ha avuto la tentazione di defenestrarsi. Questo conferma una motivazione autodistruttiva, che si è repentinamente convertita in motivazione eterodistruttiva.

Il terzo indizio si ricava dalla confessione: il bambino era colpevole di rimproverarla, come gli altri. E' evidente che la madre deve avere interpretato come rimprovero qualche suo comportamento equivocabile, come per esempio il pianto o un malessere irrequieto.

Ma chi sono gli altri cui Giuliana fa riferimento? E soprattutto, che senso ha la contraddizione per cui essa, arrabbiata con se stessa, e oppressa dai rimproveri decide infine di sacrificare il figlio, che rappresenta gli altri che la rimproverano?

Per rispondere a queste domande, devo prescindere dal caso in questione dato che non conosco altro che quanto hanno riferito i giornali. Mi autorizzo a farlo perché non è vero, come talvolta sostengono gli esperti che, per capire fatti del genere, occorre conoscere a fondo la storia interiore dei soggetti. Un disagio psichico riconosce di certo la sua ragione d'essere e le sua matrici in quella storia. Ma, dal momento in cui si definisce, esso risponde a leggi di struttura, inerenti il funzionamento della mente conscia e inconscia, che hanno una validità universale.

Una di queste leggi riguarda il significato ultimo del disagio stesso. Esso di solito, prescindendo dal riferimento all'ideologia della malattia mentale che ne riconduce la causa alla genetica, è dovuto ad un insieme di fattori - biologici ma soprattutto psicologici, ambientali, culturali - che realizzano una congiuntura patogena che, in sé e per sé, non implica se non rarissimamente la colpa del soggetto di qualcun altro.

Chiunque soffre di disturbi psichici è spinto però inesorabilmente, da una sorta di automatismo mentale inconscio a chiedersi perché proprio lui deve soffrire e se questo non dipenda dalla responsabilità di qualcuno. A livello inconscio, più ancora che conscio, infatti, è inconcepibile una sofferenza casuale, senza una ragione precisa, e ancor più senza un agente che la produca. Si può discutere all'infinito se questo automatismo sia innato o condizionato culturalmente. E' un fatto, costantemente confermato nel corso delle psicoterapie, che esso esiste, e fa capo ad una logica per cui la sofferenza dovrebbe toccare solo a chi se la merita in quanto colpevole. Se così non è, la sofferenza viene vissuta come un torto subito: implica cioè la colpa di qualcun altro.

La conseguenza di questa logica è che, nell'inconscio di coloro che soffrono di un disagio psichico, il colpevole viene sempre cercato. Il paradosso, che discende da alcuni aspetti complessi della struttura psichica, è che ne vengono trovati sempre due: il soggetto stesso e qualcun altro.

Questo accade costantemente nella depressione, e dovrebbe bastare a far capire che non si tratta di una malattia come le altre bensì di uno stato che riconosce la sua matrice in una relazione più o meno intensamente conflittuale del soggetto col mondo, che giunge a produrre una sofferenza tale da animare la ricerca del colpevole.

Questo aspetto è importante perché fa capire immediatamente che, se il riferimento alla propria colpevolezza s'intensifica, si dà il rischio che il soggetto punisca se stesso anche con la morte; se, viceversa, s'intensifica il riferimento alla colpa di qualcun altro si dà la possibilità di una vendetta distruttiva. Il rischio suicidiario, di solito, è di gran lunga maggiore di quello omicidiario, tant'è vero che statisticamente si realizza con una frequenza molto più elevata.

Ricondurre queste dinamiche ad aspetti primitivi della mente umana non è errato a patto che se ne colga il significato profondo che non è affatto irrazionale. Esso fa capo infatti ad un atavico senso di giustizia che comporta il fatto che il colpevole non possa e non debba scampare alla giusta punizione.

Dobbiamo ora chiederci qual è la pertinenza di questi discorsi in rapporto all'episodio di cronaca in questione.

Giuliana si sentiva, per sua ammissione, rimproverata dagli altri, compreso il figlio. Rimproverata da chi? Data la sua condizione di ragazza di buona famiglia che aveva deciso, ad un certo punto, di avere un figlio con un uomo di oltre cinquant'anni, senza essere sposata e senza sposarlo neppure dopo, che qualche rimprovero, casomai implicito, ci sia stato in famiglia è comprensibile. E poi la gente, soprattutto i benpensanti,, si sa, nonostante tutti i cambiamenti culturali avvenuti, i comportamenti strani o non conformi alle regole li vede e li giudica. Ma se si ammette che queste circostanze familiari e sociali non abbiano avuto un carattere di particolare gravità, si giunge alla conclusione che i rimproveri che Giuliana sentiva rimbombare dentro di lei erano in gran parte prodotti dall'inconscio, espressivi di sensi di colpa piuttosto intensi. Questo, peraltro, si accorda col fatto che essa abbia distrutto degli oggetti cui teneva e abbia pensato, prima di gettare il figlio, di defenestrare se stessa.

Perché tanti sensi di colpa? Sinceramente non lo so per quanto riguarda il caso in questione. Quello, però, che so per esperienza è che capita spesso che persone giovani, che covano una sorda e talvolta inconscia ribellione nei confronti della famiglia perbenista o di una normalità oppressiva, si abbandonano a comportamenti trasgressivi il cui intento primario è di disonorare la famiglia, ma il cui effetto è di ritorcersi contro il soggetto stesso. L'ultimo caso di cui sono venuto a conoscenza è quello di una ragazza di 26 anni che, per ribellione nei confronti di una madre tradizionalista, moralmente rigorosissima e perennemente angosciata dal giudizio della gente, si è messa con un africano musulmano che potrebbe essere suo padre, è sposato e ha cinque figli! C'è da pensare che - mutatis mutandis - qualcosa del genere possa essere avvenuto a Giuliana. Che essa, cioè, si sia abbandonata, per trasgredire, ad un rapporto senza molte prospettive e abbia portato avanti la relazione fino a mettere al mondo un figlio, ritrovandosi infine incastrata in una situazione senza scampo. Perché senza scampo? Perché il compagno avrebbe potuto lasciarlo, ma ritrovandosi nel ruolo di una ragazza-madre che, avendo già commesso un grave errore, non avrebbe potuto commetterne altri, e avrebbe dovuto passare la vita a ripararlo.

Se questo è accaduto, è chiaro che nella sua anima, con gli autorimproveri che la spingevano a punirsi facendosi del male, devono essersi mosse anche delle fantasie di annullare un vincolo oppressivo. Ciò che la destinava all'infelicità e ad un'interminabile riparazione non era però il vincolo con il compagno, che avrebbe potuto sciogliere, bensì il figlio, la cui esistenza era la prova della sua colpa e della necessità di riparare, rinunciando a qualsivoglia libertà.

Gettando il figlio dalla finestra, Giuliana non ha fatto altro che agire, intempestivamente e sciaguratamente, la decisione che avrebbe dovuto prendere parecchi mesi prima: quella di abortire. Perché non l'ha presa allora? Perché era all'epoca ancora preda di un impulso a trasgredire e a sfidare il giudizio sociale? Perché non si rendeva conto delle conseguenze della situazione in cui si sarebbe ritrovata? Per scrupoli morali?

Di cosa la rimproverava il figlio nella sua mente? Di non volerlo più dopo averlo messo al mondo? Di essere una madre snaturata? Questi sono i nodi da chiarire.

Se anche si riuscisse a chiarirli, che cosa cambierebbe? I fatti sono fatti. Già, ma la loro intepretazione è ciò che rimane nella memoria. Non sarebbe male se l'opinione pubblica si affrancasse dal mito dell'istinto materno, che esiste, ma nell'uomo, come tutti gli istinti, è debolmente rappresentato e può essere facilmente interferito dall'esperienza soggettiva e culturale del soggetto. Non sarebbe male se essa si abituasse a leggere, nei raptus di follia, anziché l'indizio di una malattia mentale che spinge ad agire atti insensati, le espressioni di drammi univocamente incentrati su di uno stato di sofferenza che promuove automaticamente la ricerca e la punizione di chi ne ha colpa. Non sarebbe male, infine, se si prendesse atto che la follia, qualunque tipo di follia, compresa quella che conduce al crimine, fa capo alla problematica universale del significato del dolore e di come esso si produce e, posto il trabocchetto mentale dell'attribuzione di colpa, gravita inesorabilmente verso il fare giustizia.

L'atto commesso da Giuliana è oggettivamente folle e criminale. Come al solito, però, penso che, se si apporfondisse il suo significato, ci si ritroverebbe di fronte ad un viluppo di perbenismi, repressioni normative, scrupoli morali, sensi di colpa per un verso e di rivendicazioni trasgressive di libertà, sfide nei confronti degli occhi della gente, difese anestetizzanti contro i sensi di colpa, ecc. Un tragico viluppo nel quale si potrebbe leggere la possibilità che un'esperienza soggettiva finisca in un tunnel che, al suo sbocco, si apre solo su due alternative: mors mea vita tua, mors tua vita mea. In nome della giustizia, questa incoercibile e terribile emozione radicalmente umana.

Settembre 2002